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Un lavoro ben fatto


Se in Guascogna si parla di vigne, vino e armagnac non é difficile uscirne sconcertati.

In un mondo contadino che per secoli ha esercitato l’empirismo più esasperato, ascoltare affermazioni assai contraddittorie è del tutto normale.

Ben più problematico è invece capire da quale parte abiti la verità.

Non ho la presunzione di averlo scoperto, comunque qualche certezza l’ho acquisita, ad esempio che non esiste un credo rivelato e che il manicheismo non aiuta a capire.

Specialmente quando le tesi sono così discordanti.

Il sottoscritto in più occasioni si è dichiarato convinto assertore del tradizionalismo e in altrettante occasioni ha sostenuto la necessità di innovare.

Facile percepire una contraddizione e tuttavia nulla può, o deve, restare immutato nel tempo.

Su un punto però non possono esistere polemiche: un lavoro ben fatto va sempre riconosciuto.

Nel caso che riporto si tratta di un esempio perfetto di coniugazione fra vecchio e nuovo.

Parlo dell’esperienza del Signor Vital Barthe, contadino nato a Mourède nel 1856 e traggo la notizia dalla bella pubblicazione della Società Archeologica del Gers.

Nel corso della sua lunga vita ha tenuto per ben 47 anni un quaderno sul quale annotava tutto; mi limito a segnalare i fatti riguardanti il lavoro della vigna e la vinificazione.

Il suo esempio acquista maggiore rilevanza se si considera che il periodo analizzato comprende gli anni bui delle malattie della vite.

Ogni appezzamento di vigna, addirittura ogni filare, era osservato; si partiva dal singolo vitigno per giungere alla qualità e alla resa in uva, passando dai lavori effettuati fino ai trattamenti resi necessari nella stagione.

Senza dimenticare la concimazione.

In questo modo era in grado di confrontare il periodo di maturazione con gli anni precedenti, di seguire lo sviluppo delle malattie secondo la dislocazione del vigneto, del luogo di produzione e del vitigno presente.

Certamente seguiva le sue terre lavorandole secondo la tradizione del luogo e di famiglia e altrettanto certamente era attento agli avvenimenti di quegli anni, dalle malattie alle fluttuazioni del mercato.

L’innovazione era quindi intimamente connaturata all’analisi corretta e protratta della tradizione.

Era una necessità, non una moda; se le viti fossero seccate, restava la scelta fra l’abbandono e il cambiamento di attività, quindi sul come, dove e quando cambiare era determinante l’esperienza pregressa.

Forse per comprendere appieno il Signor Barthe, bisogna semplicemente amare il proprio lavoro.

La citazione ha valore universale come esempio e possiede per me anche un richiamo famigliare per cui concludo nel modo meno opportuno, citando ancora un caso personale.

Credo di essere stato uno degli ultimi neonati che sia stato completamente fasciato per i primi mesi della sua vita e tuttora non so quale motivo avesse originato questa consuetudine.

Mia madre era convinta che al piccolo sarebbero cresciute le gambe diritte.

Comunque immagini di bimbi “imballati” in questo modo sono già presenti in tempi medievali, quindi diversi secoli sono passati prima che qualche pediatra rivoluzionario stabilisse che si trattava certamente di un gravoso lavoro per la madre e un inutile tormento per il bimbo.

A giudicare dai putti policromi dei Della Robbia allo Spedale degli Innocenti a Firenze si potrebbe pensare che col tempo la condizione dei bimbi fosse addirittura peggiorata.

Loro, almeno, avevano le braccia libere.

Quelli come me erano più assimilabili alle mummie.

Professarsi tradizionalista, lo riconosco, non è mai stato comodo.

Allego l’immagine dell’etichetta del Clos le Priou, proprietà del Signor Crombez de Montmort a Hontanx, perché ritengo il motto altamente rappresentativo.

Un lavoro ben fatto
Un lavoro ben fatto